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GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO - 15/10/2006

Dormono in auto i papà dei bimbi malati di cancro

Dio forse s'è distratto. Oppure ha chiuso gli occhi, oppure è accaduto qualcosa e non lo sappiamo. Ci sono persone che non si vorrebbe mai incontrare. Meglio non vedere, non pensare. Meglio tirare la carretta della vita, famiglia, lavoro, amici. Boh? Vacanze. Invece no. Dio forse s'è distratto. E un giorno t'imbatti in Antonio e Rosaria, in Giuseppe e Nadia, in Maria (che è senza marito), in Pinuccio e Anna. Devono raccontare qualcosa al mondo, per combattere quel peso che soffoca, spinge sullo stomaco, chiude la gola, stringe il cervello. Divora l'anima. Sono genitori, ma di fronte hanno un nemico forte che può risparmiare (e grazie alla nuova Medicina lo fa sempre più spesso), ma può uccidere i loro figli. E questi bambini chiedono di non soffrire, di giocare, correre, sorridere, sapere, scoprire, crescere. No. Sono malati di leucemia, cancro del sangue. Le cellule maledette, Dio s'è distratto e loro ne approfittano, si moltiplicano con cattiveria, inutile, stupida, geniale. Chi ha provato la malattia di un figlio racconta, «si rimane inermi, ammutoliti, preda di una sofferenza che non concede tregua. Il solo fatto di vedere il mio bambino soffrire mi faceva sentire totalmente impotente. Avrei voluto fermare per un solo minuto il male, come quando era il mio piccolo ed il mio conforto, il coraggio infinito che trovava in me, suo padre, lo rassicurava sempre. Questa volta non potevo fare nulla». Dio s'è distratto. Forse. Al Sud s'è distratto di più. La leucemia costringe ancora a lunghi viaggi della speranza, nonostante la bravura dei nostri medici. Si prepara la valigia, dolore e luce, si prendono i giocattoli preferiti, si raccolgono un po' di soldi in famiglia e si parte. Genova, Pavia, Roma, Bergamo, Padova, Trieste. Ma c'è il Sud del Sud. C'è chi dalla Calabria, dalla Lucania, dal Salento, dalla Capitanata arriva a Bari. Dipende dalle terapie, da quelle che sono la diagnosi e la prognosi. Da quanto, da cosa il destino ha segnato sulla casella personale della vita. Al policlinico il reparto di oncoematologia pediatrica è un buon reparto. Nonostante i troppi dubbi che ancora schiacciano la sanità pugliese, nonostante incongruenze e limiti strutturali che resistono ad ogni campagna elettorale, a convegni e dibattiti, al flusso degli anni, ad un cielo di un azzurro che è più o meno nuovo, a seconda dei punti di vista, da dove lo si osserva, da come lo si osserva, da quando lo si osserva. Dio però s'è distratto. E non va bene. Ricordate Antonio, Giuseppe, Pinuccio? Sono del Sud del Sud. Li trovate nel policlinico. Non sempre. Vanno e vengono in base a quel che dicono i medici, i padri, alcuni dei padri, dei piccoli ammalati di oncoematologia pediatrica. Le mamme sono con i figli, mascherina antisettica e una mano sempre pronta a una carezza, un sorriso dolce anche se vorresti perderti tra le lacrime. Come quando tutto andava bene. Lavoro, scuola, vacanze, famiglia, amici. Invece Antonio, Giuseppe, Pinuccio no. Non c'è posto, non ci sono case alloggio, centri di accoglienza. Nemmeno quattro assi e un materasso. Nemmeno solo quattro assi. Nulla. Bari può essere così, crudele, fredda, distante, assente. Bari può essere tanto orribile. Antonio, Giuseppe, Pinuccio dormono d'estate sulle panchine dell'ospedale, d'inverno nelle auto, vetri appannati e giacche a vento ben chiuse. Dormono così, vivono così a pochi metri dalle stanzette dove c'è la parte più preziosa di loro, l'unica che conta. E non possono allontanarsi, ché l'angoscia diventa insopportabile, ché basta un segnale lieve a riaccendere la speranza, riprendere a pregare, respirare ancora. Vivono così, punto e basta. Spieghiamo: vecchie regole giornalistiche imponevano la «notizia subito». Le classiche cinque «w» (in inglese), «chi, come, dove, quando, perché». Questa volta no. La notizia è «sotto», alla fine. Un po' per pudore, un po' per vergogna.

Roberto Calpista calpista@gazzettamezzogiorno.it


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